Dalla Toscana alla Campania, dalla Sicilia all’Emilia Romagna, sempre più coltivatori stanno investendo tempo e denaro per far riprendere vita ai grani antichi. Si tratta di grani che ormai erano stati dimenticati e scartati a favore del più comune e utilizzato grano tenero, dal quale prevengono le farine 0 e 00 usate nei prodotti da forno, nella pasta, nel pane. Tutto questo per la gioia degli intenditori, della salute e, soprattutto, della difesa della biodiversità.
Grani che arrivano dal passato
Ma a cosa ci riferiamo quando parliamo di grani antichi? Si tratta di varietà che venivano utilizzate nel passato e che non sono state sottoposte alle tecniche moderne di miglioramento genetico messe in atto per incrementare le produzioni. Per spiegare ancora meglio, tali grani mantengono intatto il loro codice genetico originale non avendo mai subito interventi umani. In Italia fu Nazareno Strampelli, scienziato, agronomo e genetista, all’inizio del Novecento ad incrociare varietà differenti di frumento per migliorarne la produttività. Realizzò incroci addirittura tra più di ottocento frumenti di grano duro e tenero, arrivando a dar vita prima alla varietà nominata Senatore Cappelli,
La Sicilia, culla dei grani antichi
Al primo posto tra le regioni italiane in quanto a quantità di grani antichi presenti è di certo la Sicilia, un tempo riconosciuta quale “granaio dell’Impero Romano”: se ne contano infatti ben 52. Tra i protagonisti nella difesa di tale enorme biodiversità “made in Sicily” c’è sicuramente Giuseppe Li Rosi, presidente dell’associazione culturale “Simenza – Cumpagnìa siciliana sementi contadine”, nata a febbraio con l’obiettivo della conservazione delle sementi contadine siciliane. Lo stesso Giuseppe Li Rosi ha scelto di impiegare 100 ettari del terreno della sua azienda di famiglia per la coltivazione di grano locale e, seguendo le direttive obbligatorie per tutte le aziende che fanno parte dell’associazione, lo fa senza utilizzare prodotti chimici. “L’Associazione Simenza – spiega Li Rosi – è composta da agricoltori siciliani che vogliono studiare la biodiversità, tramite l’incontro e l’evoluzione e sfruttarla per una svolta decisiva nella nostra magnifica cultura della Terra. C’è uno spirito di connessione tra noi ed essa, l’Uomo partecipa alla creazione. È sempre più impellente la necessità di dire ‘no’ ai grani modificati in favore di quelli antichi siciliani. Dobbiamo scegliere di mangiare prodotti sani. Parlate con i contadini, venite in campagna, spostiamo assieme le ‘balle’ che ci sono state raccontate fino ad oggi sull’agricoltura”. La crescita della coltivazione dei grani antichi, in Sicilia, ha visto la partecipazione di tanti agricoltori che si stanno votando a questo “ritorno al passato”: ufficialmente gli ettari dedicati ai grani antichi sono circa 500 ma, in via ufficiosa, si parla di un totale che si starebbe già avvicinando ai 3.000 ettari.
Il caso Salento, la riscoperta del Maiorca
Anche il Salento ha il suo “eroe del grano”: si tratta di Ercole Maggio, proprietario a Poggiadro, in provincia di Lecce, de “Il Mulino Maggio”. La sua è una storia che parla di tradizioni e di ricerca. Innamorato della sua terra e curioso, dopo aver trovato nelle sue proprietà un tipo di grano apparentemente diverso dagli altri, lo semina in un piccolo appezzamento. Gli anziani e il Cnr (Centro Nazionale di Ricerca) lo confermano nella sua scoperta: il grano trovato e poi coltivato con cura è il grano tenero Maiorca, un grano di origine borbonica, arrivato in Italia durante l’invasione spagnola del XVI secolo. “Dopo il raccolto, alla fine dell’estate – spiega il signor Maggio – ho estratto 48 campioni di grani diversi e li ho seminati dietro a casa mia, per cercare le singole spighe dei grani antichi da cui derivavano. In questo modo sono riuscito a selezionare altre tre varietà: il grano duro Capinera, di origine turca, portato in Salento dalla dominazione ottomana; il grano duro Russarda, anch’esso di origine turca; e il Saragolla, variazione italiana del Khorasan, o Kamut, di origine egiziana. Tramite i trattati di agraria mi propongo di trovarli tutti, per poi darli al CNR e farli esaminare”. Nel 2015 l’azienda di Ercole Maggio è stata nominata “custode della semente” di Maiorca – una delle varietà autoctone riscoperte – in quanto unica realtà ad averla ricreata e riprodotta regolarmente nei propri campi.
Grani antichi, una passione italiana
Non solo il Sud, comunque, si è lanciato alla riscoperta dei grani antichi. In Toscana, ad esempio, le aziende Alce Nero e Terre Regionali Toscane hanno deciso di collaborare ponendosi l’obiettivo di conservare la varietà del germoplasma maremmano e di ricominciare a utilizzare i grani antichi tradizionali. Un progetto difeso e sponsorizzato da Legambiente, anche perché le coltivazioni di grani antichi sono presenti all’interno del Parco regionale della Maremma, un’area protetta per l’enorme valore dal punto di vista della biodiversità. Anche l’Emilia Romagna si fa notare con la riscoperta di numerosi grani antichi lungo tutto il suo territorio. Nel faentino, ad esempio, alcuni agricoltori stanno lavorando per recuperare le varietà di grano Gentil Rosso e Ardito mentre è ormai una realtà già consolidata quella del Molino Pransani che, dal 1910, è noto come uno dei migliori produttori italiani di farine da grani antichi. Dell’azienda riminese Bio’s, poi, la famosa Farina dei Grani Antichi di Romagna che nasce grazie all’incrocio di ben dieci varietà di grani antichi coltivati nel cuore della Romagna.
I grani antichi amati dai grandi brand
Anche le grandi aziende italiane sembrano non rimanere immuni dal fascino del passato. La Heineken Italia, ad esempio, ha da poco messo sul mercato la birra Grani Antichi.