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Rifiuti, sfruttare le correnti per pulire l’oceano

Arriva da un giovane olandese l’idea di sfruttare le correnti delle acque presenti negli oceani per ripulirli dalle tonnellate di rifiuti che le infestano, la plastica in particolare, e combattere così una delle piaghe ambientali più diffuse e nocive per l’ecosistema marino ma anche per la salute delle persone.

 

Lunghe braccia per raccogliere i rifiuti

Il sistema è stato ideato da Boyan Slat, uno studente olandese poco più che ventenne, che, per poter creare il prototipo della sua invenzione, ha fondato la “The Ocean Cleanup” e ha ottenuto i finanziamenti necessari attraverso una campagna di crowdfunding raccogliendo circa un milione e mezzo di euro, seguiti da investimenti anche da parte del Ministero dell’Ambiente olandese e dalla società Royal Boskalis Westminster, leader nel settore delle infrastrutture marittime. Ora nel mare del Nord, più precisamente in un porto della citta de L’Aia, inizieranno i test per verificare se il prototipo funziona davvero e se potrà diventare un modello da seguire in tutti i mari del mondo. “The Ocean Cleanup” si basa su due elementi principali: due grandi bracci capaci di imbrigliare i rifiuti galleggianti, anche di piccole dimensioni, e le correnti, che da sole riusciranno a convogliare tali rifiuti e ad accumularli contro i due bracci. La barriera, simile a un serpentone, è realizzata in gomma vulcanizzata e lavora dunque sfruttando il lavoro delle correnti marine per incanalare la spazzatura galleggiante – spesso di pochi millimetri di grandezza – in un cono. Un sistema sottomarino di cavi permetterà di ancorare la barriera fino a 4.500 metri di profondità, quasi il doppio della profondità testata inizialmente. Come ha spiegato lo stesso Boyan Slat “l’obiettivo principale di questi test è quello di vedere se siamo in grado di costruire qualcosa che può sopravvivere in mare per anni, se non per decenni. Vogliamo testare l’efficienza del sistema, capire il suo comportamento e vedere quali danni possano essere prodotti, nel corso del tempo, dalle abrasioni e dall’usura”. La barriera è stata posizionata a circa 20 km di distanza dal porto, in mare aperto, e qui rimarrà per circa un anno, durante il quale verranno dunque realizzati numerosi test. Poi, per la fine del 2017, è prevista l’installazione dello stesso prototipo anche al largo delle coste giapponesi. Se anche questa seconda fase di test verrà superata, una barriera ben più imponente, di circa 100 chilometri, verrà posizionata nell’Oceano pacifico, tra la California e le Hawaii, a partire dal 2020. L’obiettivo dichiarato è quello di ripulire, entro cinque anni, la metà della Great Pacific Garbage Patch, letteralmente “grande chiazza di immondizia del Pacifico”: si tratta di un agglomerato di rifiuti galleggianti, per lo più di plastica, che, secondo stime recenti, potrebbe già aver raggiunto un’estensione quasi doppia rispetto a quella degli Stati Uniti. Recentemente poi oceanografi ed ecologisti hanno scoperto che circa il 70% dei rifiuti marini in realtà scende sul fondo dell’oceano e non è visibile in superficie.

 

Un mare di rifiuti in tutto il mondo

L’idea di una spazzatura galleggiante sul mare in realtà non è proprio veritiera. Si tratta infatti di agglomerati quasi interamente costituiti da minuscoli frammenti di plastica, chiamati microplastiche, spesso non visibili ad occhio nudo. Le stesse immagini satellitari non mostrano infatti un accumulo gigante di spazzatura ma più che altro zone di acqua simili a una zuppa che ribolle. Questa “zuppa” è spesso mescolata con oggetti più grandi, come attrezzi da pesca o scarpe. Il problema dei rifiuti di plastica dispersi nelle acque degli oceani è stato lungamente studiato tanto da far lanciare agli studiosi un serio grido di allarme con la previsione che, continuando a produrre i livelli attuali di rifiuti, entro il 2050 ci sarà più immondizia in mare che pesci. Dati così allarmanti sono contenuti nello studio della Fondazione Ellen MacArthur che sottolinea come, oggi, ci siano già circa 150 milioni di tonnellate di plastica nell’oceano. Ogni anno, almeno 8 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica vengono riversati in mare, quantità che, per comprendere meglio, equivale al contenuto di un camion della spazzatura versato nell’oceano ogni minuto. Se non si interviene, si può calcolare che si arrivi ad una quantità pari a due camion al minuto entro il 2030 e a quattro al minuto entro il 2050. In una simulazione, dunque, si prevede che nelle acque degli oceani, entro il 2025, sarà presente una tonnellata di plastica per ogni tre tonnellate di pesce per arrivare, poi, entro il 2050, come anticipato, ad avere, in peso, più plastica che pesce. Tale inquinamento è davvero capillare, tocca tutte le acque del mondo, anche se, nonostante fino a ieri vi fosse il convincimento che tale fenomeno riguardasse soprattutto i Paesi occidentali, più consumistici, oggi si scopre che circa il 60% dei rifiuti in plastica presenti negli oceani proviene da cinque paesi asiatici: Cina, Filippine, Thailandia, Indonesia e Vietnam. Secondo lo studio “Plastic Debris in the World’s Oceans” pubblicato da Greenpeace, i materiali plastici e sintetici sono i tipi più comuni di rifiuti riversati nelle acque degli oceani e causano la maggior parte dei problemi per gli animali marini e per gli uccelli. Almeno 267 specie diverse di animali hanno sofferto per la involontaria ingestione di rifiuti, compresi uccelli, tartarughe, foche, leoni marini, balene e pesci. Addirittura è stato provato da studiosi dell’Università di Uppsala, in Svezia, che i pesci che crescono in acque ricche di particelle di plastica arrivano a sviluppare un vero e proprio gusto per la spazzatura, scegliendo così di mangiare la plastica al posto dello zooplancton, loro fonte di cibo naturale, oltre ad avere un ritardo di crescita, essere meno attivi, ignorare l’odore dei predatori e sperimentare un netto aumento dei tassi di mortalità. E i rischi non si fermano agli animali ma possono arrivare fino a noi. I minuscoli pezzi di plastica che vengono ingeriti dagli animali marini riescono infatti a risalire la catena alimentare sino ad arrivare sulle nostre tavole. Gli scienziati hanno addirittura coniato un neologismo, plastisfera, per descrivere tale fenomeno, che nel 2050 rischia di diventare una vera e propria emergenza mondiale.

 

Partire dalla coste per pulire gli oceani

Ecco perché governi e associazioni di tutto il mondo sentono come urgente la necessità di trovare nuove e più veloci soluzioni per ripulire le acque degli oceani. E così, oltre al sistema ormai in sperimentazione dell’olandese Boyan Slat, sta avendo successo anche un’altra idea innovativa, il Seabin Project, questa volta ideata da due surfisti australiani, Andrew Turton e Pete Ceglinski. Si tratta di un cestino della spazzatura automatizzato capace di raccogliere i rifiuti galleggianti così come gli imballaggi di olio, carburanti e detergenti. In questo caso, però, il progetto prevede di partire dalla terraferma. Quindi il cestino viene posizionato in acqua fissato ad un pontile. Una pompa crea un flusso d’acqua verso l’interno del contenitore e porta con sé i rifiuti galleggianti e i detriti, che vanno ad ammucchiarsi in un sacchetto di fibra naturale, dotato di un filtro che separa l’acqua dagli olii. L’acqua, depurata da tutti i rifiuti, viene poi aspirata per essere immessa nuovamente nell’oceano. Il sacchetto, come in qualsiasi comune raccolta di spazzatura, deve essere cambiato e smaltito poi secondo le norme locali. Il Seabin Project sembra dunque venire incontro alle indicazioni provenienti dall’Imperial College di Londra, il cui studio, pubblicato sulla rivista Environmental Research Letters, è stato compiuto per determinare quali siano le aree migliori per dispiegare “collettori” per le microplastiche simili a quelli concepiti dal progetto “Ocean Cleanup”. Secondo i dati raccolti in tale studio, se queste barriere fossero poste lungo le coste di isole cinesi e indonesiane rimuoverebbero il 31% delle microplastiche che stanno soffocando l’oceano, a fronte del 17% raccolto dagli stessi collettori posizionati però a ridosso dell’isola di spazzatura. Per il dottor Erik van Sebille, uno degli autori dello studio, ha infatti più senso rimuovere le plastiche “lungo coste densamente popolate e sfruttate economicamente”, prima “che abbiano la possibilità di danneggiare” gli ecosistemi.