Sono passati esattamente sei anni dall’esplosione, nel Golfo del Messico, della piattaforma petrolifera d’altura Deepwater Horizon, che uccise sul colpo undici persone e causò l’inquinamento delle coste di ben cinque Stati americani: il peggior disastro ambientale della storia. La piattaforma offshore cercava il greggio alla maggiore profondità mai raggiunta, circa 1.259 metri dal fondo del mare, spingendosi per altri 1.500 metri nelle rocce, oltre il limite per cui era stata costruita. Proprio nei giorni scorsi l’ultimo atto legale del caso, che si chiude con un risarcimento record di 20 miliardi di dollari a carico di Bp: un giudice federale della Louisiana, Carl Barbier, ha infatti confermato l’accordo con cui il colosso petrolifero, che gestiva la piattaforma, verserà un totale di 20 miliardi di dollari, di cui 5,5 miliardi saranno versati al governo Usa come multa e il resto per coprire le spese di recupero ambientale dell’area. Dopo aver stabilito in precedenza che la società petrolifera era stata “grossolanamente negligente”, il giudice federale ha approvato in via definitiva l’accordo risarcitorio, il più grande del genere con un singola soggetto, mettendo fine a sei anni di controversie legali. La somma verrà dilazionato nel corso di sedici anni e coprirà per l’appunto i danni provocati dai 5 milioni di ettolitri di marea nera al governo Usa e ai cinque stati americani che si affacciano sul Golfo del Messico (Alabama, Florida, Louisiana, Mississippi e Texas). «Bp sta ricevendo la punizione che merita per i danni causati all’ambiente e all’economia della regione del Golfo del Messico», queste le dichiarazioni del ministro della giustizia statunitense, Loretta Lynch, commentando l’accordo, che ha anche aggiunto: «Questo dovrebbe indurre sia la compagnia che i suoi colleghi a prendere tutte le misure necessarie per garantire che niente del genere accada di nuovo».
La storia si ripete
Non esiste solo il caso del Golfo del Messico, però. Purtroppo, anche se con minor riscontro sui media e fortunatamente senza morti, questi incidenti ad oggi non sembrano diminuire. Proprio nei primi mesi del 2016 abbiamo assistito ad altri due gravi fuoriuscite di petrolio. Le autorità di Taiwan stanno infatti ancora cercando di contenere la marea nera causata da una nave che si è spezzata in due a 300 metri dalla costa dello Shimen district di New Taipei City, a nord dell’isola. Il fatto è accaduto il 25 marzo, ma il cargo da 15mila tonnellate si era incagliato il 10 marzo. I 21 membri dell’equipaggio sono stati fortunatamente portati in salvo tramite elicottero. A 24 ore dalla comparsa delle prime crepe, lo scafo si è diviso in due, e dal suo interno sono finiti in mare alcuni dei contenitori di olio combustibile trasportati. A oltre 1,5 chilometri dalla nave, le rocce lungo la costa sono interamente coperte di olio nero. Una situazione che potrebbe peggiorare se il cuore della nave, pieno di carburante, dovesse frantumarsi interamente per riversare il suo contenuto in mare, dal momento che in meno di un giorno, la marea nera si è estesa di quasi cinque volte. Cheng Sha-yen, professore presso il Dipartimento di Biologia Ambientale alla National Taiwan Ocean University, ha detto che per ripulire il mare dall’inquinamento potrebbero servire ben 4 o 5 anni.
L’onda lunga della marea nera
Resta il fatto che sei anni dopo l’esplosione della Deepwater Horizon e la successiva fuoriuscita di petrolio, varie specie animali nel Golfo del Messico ne sono ancora gravemente colpite: lo afferma un rapporto della National Wildlife Federation.