Carbone addio vol. 2: tra carbon-free e coal-free
La diatriba sull’uso dei combustibili fossili per la produzione di energia, in particolare sull’utilizzo del carbone, vede attualmente in campo due squadre molto accanite che si combattono e che vogliono arrivare a due diversi obiettivi. Una, quella composta dalla maggior parte delle associazioni ambientaliste e da alcuni stati pionieri, vorrebbe arrivare a chiudere tutte le centrali a carbone (coal-free); l’altra, rappresentata dalle imprese energetiche tradizionali e dai Paesi la cui economia si basa in larga parte sul carbone, si sta impegnando invece a ridurre drasticamente le emissioni di CO2 rinnovando gli impianti e rendendone più “pulita” la lavorazione (carbon-free).
Il Nord Europa in prima linea
Della prima squadra fa di certo parte la Scozia, che pochi giorni fa, precisamente il 24 marzo, ha ufficialmente chiuso la sua ultima centrale a carbone. Fa effetto pensare che proprio una delle nazioni che ha visto nascere la rivoluzione industriale e che per anni ha basato la sua economia su questa attività sia invece diventata la paladina della filosofia “coal-free” e abbia deciso di non produrre più carbone dopo 115 anni di estrazione e lavorazione dello stesso (ne avevamo già parlato qui). Già da tempo, in realtà, molte altre nazioni si sono pubblicamente schierate prendendo una posizione netta nella diatriba. La Svezia, ad esempio, nell’ottobre del 2015 ha dichiarato, per voce del primo ministro svedese, Stefan Löfven, davanti all’assemblea generale dell’Onu, il suo impegno a dire addio all’energia fossile avviando una vera e propria rivoluzione energetica basata sulle fonti rinnovabili (già nel 2015 Stoccolma generava ben il 66% della propria energia attraverso il fotovoltaico e l’eolico). La Danimarca ha addirittura anticipato di cinque anni, spostando al 2025 e non al 2030, il termine entro il quale mettere al bando l’energia del carbone, una netta accelerazione sulla tabella di marcia climatica del paese scandinavo. Arriva anche dagli Stati Uniti, precisamente dall’Oregon, un impegno simile: chiudere tutte le centrali a carbone entro il 2035. Attualmente, attraverso il carbone, viene fornito il 33% dell’energia. Il cosiddetto “Stato dei castori” ha deciso di investire sulle energie rinnovabili chiedendo alle due più grandi aziende energetiche, la PacifiCorp e la Portland General Electric, di smantellare le loro centrali. Insomma, dal Nord Europa al Nord-Ovest degli Stati Uniti, la compagine contraria all’uso dei combustibili fossili sembra ingrandirsi e diventare sempre più agguerrita.
Cina: un gigante di carbone che cerca soluzioni green
Accanto a questi Paesi “rivoluzionari”, sono molte le organizzazioni che da anni pongono la questione dei combustibili fossili. Tra le prime il Wwf che nel novembre 2015, due settimane prima dall’avvio del COP21 di Parigi, aveva presentato un documento di posizionamento su Carbone e Clima nel quale sosteneva che “il consumo di carbone nel mondo deve iniziare a diminuire entro il 2020 per essere completamente eliminato dal sistema energetico globale necessariamente prima del 2050”. Sempre secondo tale documento, “circa quattro quinti di tutto il consumo di carbone (e di emissioni relative) si presenta in appena quattro nazioni e regioni – Cina (50%), Stati Uniti (12%), India (9%) e l’UE (8%)”. E mentre l’uso di carbone nell’Ocse è diminuito dal 2007 di circa 11% (nonostante ciò, l’Ocse, insieme alla Russia, è ancora un consumatore importante di carbone con quasi il 30% del totale globale), la Cina, con l’India, ha avuto una crescita elevata delle emissioni di CO2 negli ultimi dieci anni come conseguenza dell’aumento rapido del fabbisogno energetico interno connesso allo sviluppo industriale e l’infrastrutturazione delle città. Il gigante cinese è di certo quello che maggiormente preoccupa gli ambientalisti di tutto il mondo se consideriamo che 3,7 milioni di tonnellate di carbone vengono estratte dalla Cina. La Cina, dunque, basa il suo sistema elettrico sul carbone, posizionandosi anche per questo motivo al secondo posto come produttore mondiale di CO2. E la dipendenza dal carbone del paese asiatico è chiaramente visibile nell’atmosfera: muri di smog rendono irrespirabile l’aria delle più grandi città, arrivando addirittura a toccare il Pacifico occidentale fino agli Usa. In particolare, sono le popolazioni del nord della Cina a risentire dei danni maggiori. Secondo AgiChina24.it, portale dedicato alle imprese italiane che vogliono sviluppare i propri affari in Cina e che si occupa di fornire analisi e approfondimenti giornalistici sui grandi temi della Cina contemporanea, ricercatori provenienti da Stati Uniti, Israele e dalla stessa Cina hanno dimostrato che in vent’anni la speranza di vita nel nord è scesa del 5,5% in media, a causa di un aumento delle morti causate da malattie cardiorespiratorie provocate dall’esposizione all’inquinamento ambientale nel lungo termine. Questo motivo, unito al fatto che quasi la metà del carbone estratto non viene in realtà utilizzato andando a produrre un surplus economicamente non redditizio, ha portato lo stesso governo cinese a un passo importante, quello di una moratoria sul carbone: nei prossimi tre anni non verranno assegnate nuove concessioni per aprire nuove miniere.
Carbone pulito: realtà o speranza?
Il tentativo della Cina è dunque quello di raggiungere una sostanziale diminuzione della CO2 attraverso un netto taglio nella produzione del carbone. Ma altri scenari si stanno delineando, a partire dal Canada. Qui, più precisamente nella provincia occidentale del Saskatchewan, nel 2014 è diventata realtà la prima centrale di energia a carbone pulito. È stata infatti convertita una centrale già esistente, quella di Boundary Dam, utilizzando la tecnologia Ccs. Con tale terminologia si intende una tecnologia in grado di catturare la CO2 prodotta da una centrale a carbone prima che si disperda in atmosfera e poi stoccarla a grandi profondità, ad esempio in vecchi giacimenti petroliferi esauriti. Nel caso del Canada, l’anidride carbonica viene in parte intrappolata sotto terra con un particolare sistema di stoccaggio e in parte venduta a una società petrolifera che la trasforma in gas fortemente compresso e la usa per ottenere la fuoriuscita di petrolio dai pozzi particolarmente difficili. Tale tecnologia non è però ben vista da molte associazioni ambientaliste per differenti motivi: intanto perché, secondo il Wwf, si ipotizza che una centrale a carbone provvista di tecnologia Ccs dovrebbe costare circa il 60% in più di una centrale normale. I costi si stimano in circa 3.800 dollari per kw installato. La Ccs rende dunque poco conveniente una centrale a carbone. Inoltre, sempre secondo il Wwf, la tecnologia Ccs riduce l’efficienza di una centrale dell’8-10%. A tale riguardo è dell’agosto 2014 la vittoria proprio del Wwf della causa contro la più grande industria mondiale di carbone, la Peabody Energy. L’autorità del Regno Unito per la pubblicità ha dato in quel caso ragione all’organizzazione internazionale sostenendo che il carbone pulito, cioè senza emissioni, non esiste, ed ha imposto alla Peabody di modificare la sua pubblicità. La Advertising Standards Authority (Asa) del Regno Unito ha dunque impedito alla Peabody Energy di usare il termine ”carbone pulito” per dire che il carbone è privo di emissioni. Come soluzione alla diatriba, la Peabody ha deciso di aggiungere una nota in calce alla pubblicità: “Lo stesso Congresso degli Stati Uniti ha introdotto e usato il termine ‘carbone pulito’, e il Giappone e la Cina hanno di recente affermato l’uso delle tecnologie del carbone pulito come importanti per le loro strategie energetiche. Queste tecnologie sono in pieno uso a livello globale e sono disponibili in commercio”.