Lo scorso 29 maggio 2015 è entrata in vigore la Legge n. 68 del 2015 (Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente), che ha ridisegnato i reati ambientali introducendo nel nostro ordinamento le “fattispecie di aggressione all’ambiente costituite sotto forma di delitto”. Prima di tale Legge i fenomeni criminali relativi al massiccio, e talvolta irreparabile, inquinamento dell’ecosistema era stata affidata all’utilizzo del c.d. disastro “innominato” disciplinato dall’art. 434 del codice penale.
Con il provvedimento del 29 maggio 2015, l’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione – Settore Penale, ha tracciato – in un documento denominato “Linee guida sulla Legge n. 68 del 22 maggio 2015”- i (già purtroppo rilevati) “problemi strutturali” delle norme contenute nella citata Legge n. 68/2015.
Innanzi tutto occorre premettere che la suddetta legge è composta da 3 articoli: l’articolo 1 (che introduce il Titolo VI – bis nel codice penale), l’articolo 2 (sulle sanzioni che sono previste per tali reati: previsione della reclusione e aumento dell’importo delle ammende), l’articolo 3 (sull’entrata in vigore della legge stessa: 29 maggio 2015).
In nucleo fondamentale della legge è rappresentato dall’articolo 1 che inserisce, dopo il Titolo VI del Libro II del Codice Penale, il “nuovo” Titolo VI – bis dedicato proprio ai “Delitti contro l’ambiente”.
Esso è composto da 12 articoli che regolamentano per la prima volta cinque nuove fattispecie delittuose o ecoreati, che sono:
- inquinamento ambientale,
- disastro ambientale,
- traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività;
- impedimento del controllo;
- omessa bonifica.
Con queste Linee guida la Corte di Cassazione si propone quindi di fornire agli operatori del settore (magistrati, avvocati, forze dell’ordine, ecc.) uno strumento per uscire dalle difficoltà interpretative ed applicative della Legge n. 68/2015 analizzando gli aspetti più importanti della normativa.
Ad esempio il delitto di inquinamento ambientale viene punito con la reclusione da 2 a 6 anni e con una multa da 10.000 a 100.000 euro a chiunque abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili: 1) delle acque o dell’aria, o di porzioni estese o significative del suolo o del sotto-suolo; 2) di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna.
Ad avviso della Suprema Corte, il punto critico della definizione normativa relativa al reato di inquinamento ambientale va individuato nella nozione di “compromissione” e “deterioramento”, poiché la distinzione dei due termini risulta non agevole, vista la vicinanza dei due concetti (vi è cioè una sostanziale identità di significato tra le due condotte distruttive).
Dal punto di vista strettamente lessicale, si legge nelle Linee Guida, la prima espressione si distingue dalla seconda per una proiezione dinamica degli effetti, nel senso appunto di una situazione tendenzialmente irrimediabile (“compromessa”) che può perciò teoricamente ricomprendere condotte causali al tempo stesso minori o maggiori di un’azione di danneggiamento, ma che rispetto a questo abbiano un maggior contenuto di pregiudizio futuro.
In ambito normativo, i due termini si rinvengono insieme, ma in una diversa relazione tra loro (il “deterioramento” inteso come forma di “compromissione”), nella definizione di danno ambientale data dall’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (Legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente), individuato in “qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”; una formula che corrisponde alla progressione misurabile (secondo parametri scientifici) del danno ambientale, al cui interno il deterioramento coincide in una perdita del grado di usabilità e/o di funzionalità ecologica.
Nel D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, invece, il termine “compromissione” non è quasi mai utilizzato e, laddove lo è, non è impiegato per indicare una situazione di danno attuale, per la quale si utilizza invece il termine “deterioramento” (art. 300).
Pertanto, ad avviso della Suprema Corte, in assenza di inequivoci riscontri testuali, non può escludersi la sovrapposizione dei due termini (posta la loro vicinanza di significato), il cui nucleo comune è rintracciabile in quella situazione fattuale risultante da una condotta che ha determinato un danno all’ambiente.
Le Linee Guida, poi, procedono con l’elencare gli altri elementi della nuova normativa che potrebbero creare difficoltà a coloro che si troveranno a dover applicare, o far applicare, tale legge.
Si invita pertanto alla lettura di questo interessantissimo documento pubblicato unitamente al presente articolo.
(Fonte: Corte Suprema di Cassazione)